Perché gli scienziati sbagliano?

Dibattiti nei salotti tivvù, sassaiole virtuali a colpi di tweet, attacchi e apologie sulle grandi verità della scienza. Ci si può fidare degli scienziati quando si confondono, contraddicono e correggono?

A inizio febbraio, alcuni esperti affermavano che il rischio di una pandemia di Coronavirus in Italia era pressoché nullo – che avremmo dovuto preoccuparci dei fulmini, piuttosto. Quando siamo stati colpiti (non dal fulmine), medici competenti hanno iniziato a litigare su quanto fosse effettivamente grave la malattia. Le valutazioni personali si sono presto spente, soffocate nei lockdown forzati, e la paura e l’audacia di chi usciva di casa ha incendiato il dibattito sull’uso delle mascherine. Molti virtuosi della scienza ne sconsigliavano l’abitudine, ritenendola inutile per la popolazione sana (o presunta tale); opinione confermata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e poi smentita, rivista, rigirata.

Nella nebbia delle polemiche, è stato difficile per chiunque farsi un’idea chiara su certe questioni. Le contraddizioni sono state esacerbate dai media tradizionali e da internet, svelando negli esperti una certa fallacia che sarebbe prassi nel mondo accademico – visto che la scienza procede per errori – ma causa sfiducia nell’opinione pubblica.

È solo un’influenza, psicologica

Mai, come in questi tempi, la ricerca è stata spedita grazie a cospicui finanziamenti e operosità stacanoviste. La velocità si è espressa in molte forme, come ad esempio il pre-print, ovvero la pubblicazione in anteprima di un lavoro scientifico non ancora sottoposto alla peer-review (la revisione esterna e indipendente che dovrebbe garantire la bontà dei risultati ottenuti). Con tanti pre-print resi pubblici, il dibattito accademico, che solitamente si svolge “a porte chiuse”, si è affacciato sul mondo. Chi, tra medici e scienziati, ha scelto la via della divulgazione e dell’intervista giornalistica non ha avuto solamente l’incombenza di offrire una luce nell’oscurità delle nostre paure, ma anche di far sentire la propria voce sopra un rumoroso concerto dove tutti hanno cantato.

Nel dibattito pubblico consideriamo gli esperti come autorevoli, immaginando che sia più utile dar retta a loro piuttosto che ad altri soggetti che, per mancanza di meriti, consideriamo diseguali e inferiori. Non è un approccio completamente sbagliato, soprattutto in un tessuto digitale dove tutti parlano e la verità si smargina. È importante, però, distinguere la scienza dalle persone e combattere i fumi tossici del principio d’autorità.

Karl Popper considerava la scienza una costruzione precaria che si sostiene su palafitte.

Con la rivoluzione scientifica del Seicento, infatti, si è stabilito che la scienza non può essere sottoposta a nessun principio di autorità per validare le proprie leggi, ma che questo compito deve passare solamente attraverso la verifica sperimentale. Di questo nuovo virus, non sapevamo nulla e la maggior parte delle affermazioni sono state fatte sulla base delle esperienze passate. A molte domande, la risposta più onesta sarebbe dovuta essere “non lo sappiamo”, ma con l’emergenza incombente abbiamo compiuto scelte all’oscuro delle reali probabilità degli eventi (ricordando che le probabilità, anche quando note, sono solamente un sostituto fiacco della verità). L’unica soluzione è correggere in itinere, lasciando al futuro il compito di dirci cosa è stato utile e cosa, invece, ci ha danneggiato ed è meglio non ripetere.

Karl Popper considerava la scienza una costruzione precaria che si sostiene su palafitte. Nulla è assoluto e oggettivamente vero, ma tutto può essere corroborato attraverso procedimenti di falsificazione. Se però un’ipotesi scientifica diventa tanto più robusta man mano che i tentativi di falsificazione falliscono, la stessa cosa non si può dire degli scienziati che, per chi se lo fosse dimenticato, sono esseri umani.

I riflettori puntati addosso accendono il senso di megalomania delle persone. Addirittura la carriera e i premi ricevuti possono acutizzare il fenomeno, come nel caso della “nobelite” (termine forse un po’ offensivo) che colpisce alcuni scienziati insigniti della più alta onorificenza: il Premio Nobel. Linus Pauling, uno dei pochissimi a ricevere un doppio Premio Nobel (per la chimica nel 1954 e per la pace nel 1962), si convinse di poter curare il cancro con generose dosi di vitamina C azzardando dimostrazioni con trial clinici mal disegnati. James Watson, padre del DNA e Premio Nobel per la medicina nel 1962, ha tentato di ridurre il suo razzismo nei confronti dei neri ad evidenze genetiche senza fondamento. E in tema di coronavirus, Luc Montaignier, scopritore del virus dell’HIV e Premio Nobel per la medicina nel 2008, ha recentemente affermato che l’origine di SARS-CoV-2 è da ricondurre ad esperimenti sul virus dell’HIV nel laboratorio di Wuhan. Ovviamente, senza la consistenza di dati a supporto, come d’altronde si è abituato a fare da tempo in merito all’omeopatia e alla pericolosità dei vaccini.

Tutto è perduto?

Oṃ Maṇi Padme Hūṃ. Mentre scrivo queste righe, mi sono quasi convinto da solo ad abbandonare ogni ricerca di verità per vivere di sola meditazione spirituale. Il senso del mio discorso, però, non è quello di provocare sfiducia nella scienza, anzi. Sbagliare è una cosa giustissima. Se uno scienziato rivede la propria posizione è come se si fregiasse di una medaglia d’onore. Loro non sbagliano a parlare ed è preferibile ascoltare un esperto piuttosto che un ciarlatano. Quello che è sbagliato, invece, è non fare dell’incertezza una risorsa e abbandonarsi a piccole verità nel tentativo di rimanere a galla sopra le nostre preoccupazioni. È inutile ripetere a pappagallo quello che dice un esperto, se non abbiamo filtrato le sue parole con il pensiero critico e se non condividiamo i ragionamenti che, da soli, permettono ad una conclusione di emergere. Reputo che l’iper-comunicazione con cui abbiamo inquinato internet in ogni suo spazio possibile rappresenti un grande fallimento per tutti. Se qualcuno si è sentito smarrito in questo periodo storico, però, non deve perdere fiducia nella scienza, perché rimane la nostra più grande risorsa anche dopo tutti i suoi sbagli. Perdiamo invece la fede, intesa come abbandono acritico, che a volte riponiamo nelle persone, anche quando godono della nostra stima. Chiunque può sbiadire sotto la macchia della fallacia umana.

Non il ‘possesso’ della conoscenza, della verità irrefutabile, fa l’uomo di scienza, ma la ‘ricerca’ critica, persistente e inquieta, della verità.


KARL POPPER, “Logica della scoperta scientifica”, 1934

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